Il P2P? Un vero game changer solo se si punta sull’interoperabilità

Pubblicato il 03 Feb 2016

di Domenico Aliperto

Marco Loro, Partner di Pay Reply

Sono molti a pensare che i trasferimenti di denaro P2P costituiranno la vera killer application del mobile payment in Italia. Sicurezza garantita dal proprio istituto di credito, immediato riscontro dell’avvenuta transazione e soprattutto una user experience semplificata – alla stregua di quelle offerte dalle applicazioni di instant messaging – ne fanno uno strumento pronto a entrare nel quotidiano di milioni di utenti. Non è un caso che in alcuni Paesi emergenti siano diventati lo strumento principe con cui anche individui sprovvisti di conto corrente o carta di credito possono trasferire denaro ed effettuare transazioni utilizzando il telefono. Mentre in Cina il fenomeno del mobile payment P2P è talmente diffuso da essersi già evoluto in una pletora di nuovi servizi finanziari al consumatore, a partire dai prestiti. A conferma dell’enorme potenziale dello strumento, anche nella Penisola c’è gran fermento: a Jiffy, servizio di SIA a cui hanno aderito 13 gruppi bancari, si sono aggiunte le startup Satispay, Chat&Cash e 2Pay, oltre alla soluzione di Banca Profilo Tinaba, operativa da marzo, e Hype di Banca Sella.

Si tratta quindi di una storia di successo già scritta? Non proprio. Perché il sistema funzioni, abilitando cioè le persone ad autorizzare operazioni verso altri utenti o merchant a prescindere dalla piattaforma bancaria che ospita l’applicazione P2P, è necessario garantire l’interoperabilità tra le soluzioni, costruendo directory condivise e repository ad hoc per la conservazione dei dati sensibili. Tutto questo rappresenta solo il primo passo in vista dell’apertura al mercato internazionale, dove naturalmente incombono gli OTT, pronti a rivoluzionare anche questo comparto forti dell’appeal dei propri brand. Ne abbiamo parlato con Marco Loro, partner di Pay Reply, che da tempo lavora alla realizzazione di soluzioni P2P.

Quali sono oggi le principali difficoltà sul piano tecnico per garantire la diffusione delle applicazioni di pagamento P2P?

Di fatto i sistemi P2P esprimono un’esperienza d’uso WhatsApp like. Questo implica che nel back-end si preveda un’associazione tra un numero di telefono e un IBAN univoco per ciascun utente. Ovviamente non esiste alcun tipo di problema nel momento in cui due utenti siano clienti dello stesso istituto di credito, mentre se i loro conti si appoggiano a banche differenti c’è bisogno di directory condivise. Attualmente i temi più caldi rispetto al raggiungimento di accordi quadro sono quelli della gestione dei dati sensibili, come le anagrafiche e i conti correnti, con l’identificazione di un titolare del repository e della governance su queste informazioni. Negli ultimi mesi ciascun istituto ha sviluppato un proprio percorso, aderendo a piattaforme offerte da specialisti dei pagamenti digitali oppure sviluppando soluzioni proprietarie. Tutti sono convinti di cavalcare l’onda del P2P con digressioni autonome, ma il vero valore dello strumento, la sua capacità di creare mass market, risiede nella sua interoperabilità. Nessuna banca, anche se con quote di mercato importanti, può oggi ascriversi l’esclusività rispetto a questo servizio. Significherebbe renderlo poco appetibile soprattutto negli scenari applicativi più ricorrenti. Penso per esempio a un conto da dividere al ristorante: qual è la probabilità che tutti i commensali abbiano un conto corrente presso lo stesso istituto?

Quale approccio converrebbe alle banche: adottare soluzioni nativamente ultra-flessibili e capaci di dialogare tra loro o allearsi per promuovere una piattaforma comune?

Una risposta certa non c’è. Il modello più centralizzato, con un unico marchio che comprenda una serie di soluzioni tra loro compatibili, potrebbe generare maggiore fiducia nel mercato nel breve termine, come fece a suo tempo PagoBANCOMAT. D’altra parte, un modello distribuito rappresenterebbe oggi un approccio meno anacronistico. Penso per esempio a un meccanismo basato sulla logica della blockchain, dove a questo punto si potrebbe ovviare alla creazione di un repository centralizzato, con open API (Access Programming Interface, ndr) che permetterebbero agli strumenti proprietari di innestarsi sulla piattaforma senza soluzione di continuità. Parliamo comunque di due modelli che possono convivere, sarà poi il mercato a scegliere quale prevarrà.

E sul fronte della sicurezza?

L’attuale user experience offre lo stesso grado di data protection dei servizi di mobile banking, con paradigmi super collaudati. I prodotti digitali sono ormai tutti connotati da sistemi di strong authentication, spesso integrati nel dispositivo, e garantiscono una assoluta solidità delle transazioni con, specialmente in ambito P2B (Person to Business, ndr), vantaggi significativi rispetto all’eventuale ripudio delle transazioni, che in passato ha creato qualche problema alla monetica tradizionale.

Dal lato dell’industria, il mobile payment non ha certo beneficiato di una catena del valore lunga e complessa…

Il P2P è caratterizzato da un meccanismo più semplice. La catena si accorcia perché non ci sono alle spalle della transazione circuiti tradizionali o sistemi di accettazione Pos specifici. La filiera corta porta centralità al valore offerto dalla banca, con un modello economico più equilibrato e meno rischioso, in genere conveniente anche per chi riceve denaro.

Facebook, Snapchat e Google – solo per citare i nomi più noti – hanno dato il via alle proprie piattaforme P2P. L’Italia sarà loro terra di conquista?

Gli OTT hanno dallo loro una base utenti sterminata e una user experience inarrivabile. Ma per dare luogo a trasferimento di fondi tramite conto corrente o carta pagamento sono necessarie informazioni finanziarie che ancora non hanno a disposizione. Il salto quantico non è impossibile: gli OTT potrebbero creare degli istituti di pagamento, come ha fatto PayPal, e dare vita – immagino – a un braccio finanziario di Facebook con sede in Lussemburgo, o a una Twitter Bank. Ma poi si ritorna al tema dell’interoperabilità, questa volta su scala globale. Non è semplice, e in Italia, almeno da parte dei consumatori, c’è una certa prudenza rispetto a questa prospettiva.

Nei Paesi emergenti P2P fa spesso rima con “unbanked” e “social lending”. Sono scenari che matureranno anche qui da noi?

In Italia esistono strumenti leggeri, come carte prepagate anonime e conti correnti con limitata disponibilità: elementi che in un contesto di servizio P2P potrebbero farlo evolvere in un’offerta più strutturata, perché no. L’instant credit può trarre grossi benefici da esperienze d’uso che permettono alle banche di interagire con i debitori in modo più sicuro rispetto a processi tradizionali. Ma quella del social lending è, a mio avviso, ancora una prospettiva non immediata. In altri Paesi europei la pratica è matura e diffusa, e rappresenta un tema di discussione con molti dei clienti a cui offriamo soluzioni di digital payment. Ma come sempre, è il mercato che decide quali bisogni devono essere soddisfatti.

In questo momento l’Italia che bisogni esprime?

Il mercato è curioso, i consumatori ben predisposti. I temi sono spiegati in maniera chiara, con user experience accattivanti e use case che indirizzano esigenze reali. Il passo successivo è integrare questi strumenti con servizi a valore aggiunto per completare l’esperienza del consumatore. Per come è concepito il pagamento P2P – con uno schema di costi bassi, facilità di utilizzo, sicurezza e rapidità delle transazioni – direi che per la prima volta si vedono in un contesto funzionale di soluzione tutti gli ingredienti che rendono il mobile payment uno strumento a portata di mass market.

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