Mobile Payment, in Italia serve un salto culturale

Pubblicato il 30 Mar 2015

Redazione

Cooperazione, interoperabilità e semplificazioni normativa. Sono queste le parole d’ordine su cui già convergono i principali operatori finanziari quando si parla di mobile payment. Certo, non è semplice ad oggi fornire una risposta univoca su quale tecnologia per l’autenticazione dell’account potrà prendere il sopravvento tra Sim based, Hce o device (sistema quest’ultimo, imposto prepotentemente con l’arrivo di Apple Pay), ma su una cosa non c’è alcun dubbio. Qualunque approccio risulterà prevalente, dovrà essere semplice per l’utente finale: cercare di costruire o peggio far sopravvivere sistemi che puntino semplicemente a giustificare catene di costo dal lato provider rischia solo di essere controproducente per tutto il settore. Da qui la necessità di collaborare, senza rinunciare alla sana competizione. Almeno stando ai punti di vista espressi alla tavolra rotonda del convegno organizzato dagli Osservatori del Politecnico di Milano per la presentazione dei risultati della ricerca su Mobile Payment & Commerce, da alcuni dei più importanti player del comparto.

“Oggi c’è una forte attenzione più che altro sulla componente tecnologica e a quello che ne deriva in termini di filiera. Dobbiamo invece preoccuparci di portare il servizio al consumatore”, raccomanda Roberto De Agostini, Marketing & Project manager di Banca Mediolanum, tra i primi soggetti a sostenere il concetto di mobile wallet in Italia. “O smussiamo certe rigidità della filiera e lavoriamo con la stessa attenzione con la quale si lavora sulla componente tecnologica anche sulle componenti di comunicazione, assistenza, formazione, senza dimenticare le modalità di distribuzione delle SIM, oppure creare la domanda e il servizio risulterà a questo punto incoerente”.

Anche per Massimo Tessitore, responsabile divisione Multicanalità di Intesa Sanpaolo, il focus deve passare dalla tecnologia alla persona. “Il punto qui non è la soluzione da scegliere”, conferma. “Non saprei dire se il 2015 è l’anno di una tecnologia piuttosto che di un’altra. So solo che fino a quando il mobile payment rimane qualcosa che impensierisce l’utente, che deve cambiare il cellulare o la carta o effettuare complicate procedure per attivare il servizio, questo strumento rimarrà di nicchia, qualsiasi sia la tecnologia sottostante. Nel momento in cui il cliente si trova automaticamente sulla piattaforma giusta, col cellulare abilitato, la carta di pagamento che può collegare alla SIM che può utilizzare senza problemi, il meccanismo su cui si basa il servizio è assolutamente indifferente”.

Le banche come ponte fra merchant e acquirenti

In realtà si tratterebbe di cambiare il paradigma con cui gli operatori devono rivolgersi al mercato. Se la logica va impostata sull’atto pratico della transazione, è all’ormai consolidato mondo del commercio elettronico che forse conviene guardare. “Al settore bancario è richiesto un vero shift”, dice Antonio Galiano, responsabile Monetica Iccrea Banca. “Per noi, ad esempio, sicuramente è molto più importante focalizzarsi sulla parte dell’e-commerce, inteso modalità di incontro tra chi deve comprare e chi deve vendere, a prescindere da come lo si fa, con quale strumento, in prossimità o col mobile wallet. La nostra mission e la nostra vision puntano a collegare chi deve comprare a chi deve vendere, perché sono entrambi attori che sviluppano relazioni forti con la banca. La strategia dovrebbe dunque tendere a unire questi due mondi, tenendo presente che il modello transazionale è quello più competitivo”.

In effetti, la situazione attuale più che essere confusa, è complessa. Almeno secondo il parere di Nicolò Romani, head of Innovation Lab di SIA. “La differenza”, precisa Romani, “è semantica, ma importante: complesso deriva da complector e significa abbracciare. Quindi ci vuole la capacità di saper leggere la complessità e andarle incontro. È un momento molto importante per giocare questa partita, soprattutto a livello europeo”. Ma unire le forze non significa solo remare tutti nella stessa direzione, sia sul fronte dei regolamenti comunitari, sia soprattutto su quello della definizione di uno standard facilmente usabile.

Per Simona David, responsabile dell’ufficio Business & Operation del Consorzio CBI, bisogna infatti andare al di là della cooperazione e puntare sull’interoperabilità. “Per noi è senz’altro quella la parola chiave. Quando parliamo di cooperazione ci sentiamo sempre un po’ intaccati sul piano della competitività, limitati nell’idea di poter essere il first mover del mercato. Invece l’interoperabilità va ricercata non solo a livello di applicazione, ma puntando anche a tagliare le lunghezze burocratiche che ci incastrano sotto forma di normative da applicare nei confronti di altri soggetti. È normale che l’utente che vuole utilizzare un’applicazione veda come deterrente il fatto di dover prima spedire via fax tre moduli diversi. Per questo dobbiamo tutti lavorare per semplificare il processo dall’inizio alla fine”.

Sfruttare il vantaggio temporale, in attesa dei grandi OTT

La questione tecnologica, comunque, anche se non prioritaria, va affrontata. In Italia e in Europa la scelta della soluzione SIM based sembra più adatta a far muovere i primi passi del mobile payment, ma da Oltreoceano le proposte degli OTT rischiano di sparigliare tutto il lavoro che banche e telco hanno fatto finora. “Nel breve periodo Mediolanum ha creduto nella piattaforma SIM based, e tutto sommato abbiamo ottenuto un vantaggio temporale”, dice Roberto De Agostini. “Certo è che o si alleggerisce la fase che eroga il servizio, oppure temo che i risultati saranno insoddisfacenti”. La chiamata è ancora una volta all’unità: “O in maniera coordinata tutti noi attori del SIM based lavoriamo per togliere queste barriere all’accesso, oppure quando arriveranno Google e soprattutto Apple saremo di fronte al rischio che si verifichi un processo di selezione naturale”.

Massimo Tessitore di Intesa Sanpaolo è convinto che ad oggi il SIM based incontri ancora difficoltà di sviluppo perché richiede per l’adozione uno sforzo molto maggiore di quello che occorre per i sistemi proposti da Cupertino e Mountain View. “Oltretutto, per la maggior parte degli utenti, non è un’azione a costo zero. Il consiglio che do agli operatori telefonici è che la sostituzione della SIM con una scheda NFC venga proposto in luogo anche di altri servizi a valore aggiunto, come per esempio la connessione 4G”.

Occhio però a cosa significa, dal punto di vista strategico, puntare sulla SIM anziché su HCE. Per Romani di SIA vuol dire impostare la propria azione su una dimensione prettamente locale. “E naturalmente è più facile è anche più semplice da gestire. D’altra parte, giocare sul piano globale, adottando il cloud, rischia di essere più pericoloso perché si entra in un mercato terreno di caccia dei big player. Noi abbiamo scelto di testare entrambe le tecnologie, poi il bilancio commerciale lo faremo insieme ai nostri clienti, e molto dipenderà anche dall’educazione tecnologica che sapremo offrire loro”. SIA, nello specifico, sta facendo perno su Jiffy, il servizio peer to peer che permette a qualsiasi possessore di smartphone Android, iOS, Windows Phone di trasferire denaro attraverso il proprio smartphone abilitando un bonifico SEPA dopo aver collegato il numero di telefono (quindi la Sim) all’IBAN delle banche che aderiscono alla piattaforma.

Ed è dal peer to peer che secondo Simona David dovrebbe partire la filiera per diffondere cultura e pratica in tutti gli strati dell’utenza. “Si parla tanto di velocità in questo settore”, dice la manager del Consorzio CBI”, “ma noi non possiamo considerarci veloci se dobbiamo attendere che Apple sbarchi in Europa e in Italia per sbloccare il nostro stesso mercato: significa che non siamo veloci, anzi siamo quasi fermi! Dovremmo usare di più la tecnologia a nostro vantaggio, e credo proprio che l’esperienza del peer to peer potrebbe darci una marcia in più”.

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