Domenico Aliperto
Di Bitcoin, fino a non più di due anni fa, se ne parlava solo nei forum specializzati, in accese discussioni di appassionati della tecnologia elaborata nel 2008 dall’ancora non meglio identificato Satoshi Nakamoto. Oggi la crittovaluta è un fenomeno mondiale e da poche settimane è sbarcata in alcuni stock exchange, debuttando persino a Wallstreet. Dopo le montagne russe del 2014, quando il prezzo di un Bitcoin era schizzato a oltre mille dollari, negli ultimi mesi la moneta virtuale si è attestata su valori decisamente più stabili, compresi tra i 200 e i 300 dollari per unità.
E mentre si diffondono in tutto il mondo terminali per l’accettazione e l’acquisto della crittovalute, con progetti universitari che ne promuovono l’adozione, finalmente il dibattito comincia a spostarsi non solo sull’utilizzo del concetto di blockchain in ambito monetario (in sostanza, il data base delle transazioni, decentralizzato), ma, potendo fare affidamento su un sistema autocertificante che più diventa vasto più è affidabile e sicuro, anche rispetto alla dematerializzazione dei registri pubblici e privati. “Solo nel primo trimestre 2015 sono stati investiti circa 200 milioni di dollari di venture capital per finanziare le startup attive nel settore delle cryptocurrency, un valore più elevato di quel che era stato speso per lanciare Internet nel 1995”, spiega Maurizio Sironi, Senior Consultant presso e*Finance Consulting Reply .
Ed è un ambito di cui anche Reply, che tra le tante attività spinge pure sui processi di pagamento innovativi, sta esplorando le potenzialità. “Sono tre gli elementi che rendono la blockchain qualcosa di assolutamente innovativo: non c’è un un ente centrale che la regola, è governata da un algoritmo disponibile in un software open source, è internazionale e senza confini. By design”, continua Sironi, “è quindi applicabile a sistemi di identificazione utenti, attestazioni di vario genere, record di asset tangibili e intangibili, come per esempio i brevetti e, soprattutto, all’Internet of things”.
Sono in effetti in molti a chiederselo: chi gestirà gli oggetti in Rete quando saranno miliardi? Meglio affidarli a un sistema unico e proprietario oppure istituire un network distribuito come quello immaginato da Satoshi Nakamoto?
“In Reply crediamo che la blockchain sarà una delle tecnologie che permetterà di risolvere quest’ordine di problemi”, dice Fausto Jori, partner di e*finance Consulting Reply. Alla base della filosofia di Bitcoin, e quindi della blockchain, c’è il concetto di miner. Si tratta di nodi distribuiti nella rete che, scelti randomicamente dal sistema, verificano per ciascuna transazione due elementi: che il trasferimento di crediti arrivi dal legittimo proprietario e che si eviti il double spending, ovvero una seconda transazione con Bitcoin già spesi. La tecnologia è totalmente autofinanziata, in quanto i miner, che mettono a disposizione del sistema la propria capacità di calcolo, sono remunerati in crittovaluta.
E il meccanismo è del tutto sicuro perché non registra i dati in un punto centrale, ma li diffonde, pur mantenendo l’anonimato, in tutto il network, dando vita a un registro sempre aggiornato e disponibile 24 ore 24, sette giorni su sette. “Questo abbatterebbe notevolmente costi e tempi degli attuali sistemi di certificazione e condivisione di dati sensibili, senza contare che per ogni transazione effettuata tramite blockchain è possibile inserire allegati con informazioni specifiche, aprendo scenari inediti sulla cogestione di servizi e prodotti in chiave sharing economy, o sulla dematerializzazione degli atti legali o notarili”, chiosa Sironi.
“Nemmeno la capacità di calcolo su protocolli legacy di una banca o della stessa Google può equiparare Bitcoin”, aggiunge Jori. “Nessuno è in grado di bucare il sistema, se non il sistema stesso nel momento in cui la maggioranza dei detentori dei nodi si mette d’accordo per cambiarne le regole. Ma a quel punto si tratterebbe di una scelta democratica”.